Che il cibo nutra il corpo lo sappiamo da sempre. Ma che parli direttamente al nostro cervello, modulando emozioni, ricordi, percezioni e comportamenti, è una verità sempre più al centro dell’attenzione scientifica e gastronomica. La neurogastronomia – disciplina che studia il rapporto tra gusto e mente – è oggi uno strumento potentissimo non solo per comprendere come funzioniamo, ma anche per progettare esperienze culinarie capaci di coinvolgere tutti i sensi.
Il gusto non è solo in bocca
Mangiare è un atto multisensoriale. Quando assaggiamo un piatto, non ci affidiamo solo alla lingua. Vista, olfatto, tatto, udito e perfino la memoria influenzano in modo determinante la percezione del sapore. Il cervello riceve e interpreta segnali complessi: il colore del piatto, il suono della croccantezza, il profumo che ci ricorda casa o un viaggio. Ed è in questo intreccio di sensazioni che il gusto prende forma.
Lo ha spiegato bene Charles Spence, professore di psicologia sperimentale a Oxford, che da anni studia come l’ambiente condizioni il nostro palato: un vino bianco può sembrare più dolce se servito in un bicchiere rosa, e un piatto può risultare più sapido solo ascoltando suoni acuti in sottofondo.
A tavola con il cervello
In Campania, alcuni chef e imprenditori del gusto stanno già portando avanti esperienze ispirate a questi studi. È il caso di Paolo Barrale, chef campano che propone menù costruiti attorno a emozioni e ricordi, come il profumo del ragù della nonna evocato da una fonduta affumicata di provola. Oppure di Sustanza, il ristorante napoletano firmato da Marco Ambrosino, dove ogni piatto è una narrazione sensoriale, in cui elementi visivi e tattili vengono studiati per generare sorpresa e stupore.

Anche nel mondo del vino si comincia a parlare di “degustazioni immersive”. Alla Tenuta Calitto a Forio (Ischia), ad esempio, i visitatori vengono guidati attraverso i filari con i piedi scalzi prima di degustare i vini, per attivare una memoria corporea profonda che amplifica la percezione aromatica.
L’ingrediente nascosto: la memoria
Uno degli aspetti più affascinanti della neurogastronomia è la sua capacità di attivare ricordi. Il nostro cervello, di fronte a un odore o un sapore familiare, reagisce con un’esplosione di emozioni. È il cosiddetto effetto Madeleine, reso celebre da Marcel Proust: un semplice biscotto inzuppato nel tè è in grado di riportare alla mente un’intera infanzia.
Molti chef utilizzano questo meccanismo per creare un legame profondo con i commensali. Pensiamo a Cristian Torsiello de Il Vairo del Volturno che rielabora la pizza fritta in chiave fine dining, ma con un impasto che profuma di vicoli e domeniche napoletane. Non è solo cibo: è una connessione emotiva.
Il futuro della ristorazione passa dalla mente
Comprendere come funziona il nostro cervello davanti al cibo significa aprire una nuova era nella ristorazione: quella esperienziale. Non si tratta più solo di buono o bello, ma di creare un viaggio sensoriale completo, dove il piatto diventa teatro, racconto, stimolo.
A Napoli, il collettivo Nutrimenti lavora proprio su questi concetti: chef, artisti e neuroscienziati progettano cene-evento in cui luci, musiche e profumi cambiano durante il pasto, modulando le sensazioni e creando un’atmosfera immersiva. Un piatto può rassicurare o destabilizzare, può calmare o eccitare, a seconda di come viene presentato.
La neurogastronomia ci mostra una verità potente: mangiare è un atto culturale, emotivo, sensoriale e neurologico. Oggi più che mai, cuochi, sommelier e produttori possono diventare artigiani di emozioni, disegnando esperienze in grado di parlare direttamente alla nostra mente. In una Campania che unisce tradizione e sperimentazione, questo approccio apre strade nuove e affascinanti. E ci insegna che, per emozionare davvero, un piatto deve saper raccontare una storia. Al cervello, al cuore, e poi al palato.