di Gabriele Cicerchia
Il Documento Programmatico di Bilancio (DPB) approvato dal Consiglio dei Ministri il 15 ottobre e trasmesso a Bruxelles conferma l’intenzione del Governo di riportare il deficit pubblico sotto la soglia del 3% del PIL già nel 2025, anticipando l’uscita dalla procedura europea per disavanzo eccessivo. Un obiettivo apprezzabile sul piano della disciplina finanziaria, ma che rivela, a un’analisi più attenta, una manovra di portata limitata, priva di un disegno riformatore di medio periodo e basata su coperture in larga parte incerte o rinviate.
La legge di bilancio per il triennio 2026-2028 si muove su un impianto complessivo di circa 18 miliardi di euro, corrispondenti allo 0,8% del PIL, la metà del valore medio registrato nell’ultimo decennio. È, in termini relativi, la manovra più contenuta, almeno dal 2014. Le nuove regole europee – che vincolano la spesa netta e limitano il ricorso al deficit – spiegano in parte questa compressione. Tuttavia, la scelta politica di non intervenire con una revisione strutturale della spesa pubblica e di affidarsi a coperture prevalentemente temporanee o rinviate nel tempo segnala la difficoltà del Governo di definire una strategia economica coerente con le priorità del Paese.
Degli oltre 18 miliardi di interventi annunciati, solo 12 miliardi trovano una copertura esplicitata. Tre le principali voci: la “rimodulazione delle spese del PNRR” per 5,1 miliardi, ossia il rinvio di parte degli investimenti previsti al 2026; l’aumento di prelievo su banche e assicurazioni (4,4 miliardi), di cui non è ancora chiara la natura strutturale o una tantum; e infine le “revisioni della spesa dei ministeri”, per 2,3 miliardi, cifra che in assenza di una vera spending review appare più come un differimento che come una riduzione effettiva.
Restano così da coprire circa 6 miliardi, inseriti sotto la generica voce “altre coperture”. Una cifra non trascurabile, equivalente all’intero costo delle misure di alleggerimento fiscale sull’IRPEF e sul lavoro. La mancata chiarezza su questa quota rende fragile l’equilibrio della manovra, tanto più in un contesto in cui la pressione fiscale rimane stabilmente al 42,8% del PIL – uno dei livelli più elevati dell’ultimo quindicennio – e la spesa sanitaria, pur in leggera crescita, si attesta appena sopra il 6,5%, valori simili a quelli pre-pandemia.
Il “buco di bilancio” che non c’era
Ed eccoci alla più evidente contraddizione politica. Per mesi, la narrazione governativa ha agitato lo spettro del “buco di bilancio”, lasciato dal Governo Conte e dai costi della pandemia, additando il precedente esecutivo come responsabile di un disavanzo “senza coperture”. Una narrazione funzionale a costruire consenso e a giustificare la linea della prudenza fiscale, ma privo di fondamento nei dati empirici. Quel presunto “buco” è stato in realtà riassorbito dai maggiori incassi fiscali derivanti dall’inflazione, dalla ripresa post-Covid e dalle revisioni statistiche operate dall’ISTAT su PIL e deficit.
Se davvero il disavanzo strutturale fosse stato fuori controllo, oggi non sarebbe possibile chiudere il 2025 con un deficit al 3%. Il paradosso è che la stessa coppia Meloni-Giorgetti che nel 2023 denunciava la “voragine” dei conti pubblici oggi si attribuisce il merito di averli risanati, beneficiando proprio degli effetti delle misure espansive adottate durante la crisi pandemica – dai ristori alle garanzie pubbliche – che hanno sostenuto consumi, occupazione e gettito. Il “buco” era dunque politico, non contabile: un espediente retorico, una bieca pratica disinformativa, per scaricare responsabilità e preparare il terreno a una manovra minimale, priva di visione e di coraggio riformatore.
Va riconosciuto al Ministro dell’Economia Giorgetti di aver preservato la credibilità finanziaria del Paese. Dopo anni di flessibilità straordinaria, l’Italia torna a una traiettoria di rientro ordinata, in linea con le nuove regole europee. Il deficit, stimato al 3% nel 2025 e al 2,8% nel 2026, segna un ritorno a un quadro di sostenibilità compatibile con la riduzione del debito, condizione necessaria per evitare tensioni con la Commissione e con i mercati.
Inoltre, l’allocazione delle risorse appare in parte coerente con obiettivi di equità e crescita: il taglio dell’IRPEF sul secondo scaglione (dal 35% al 33% per redditi tra 28 e 50 mila euro), la detassazione dei premi di produttività e dei rinnovi contrattuali, il rafforzamento del fondo sanitario e le misure per la famiglia e la povertà indicano una direzione di politica economica più inclusiva rispetto al recente passato. Anche il ritorno a incentivi agli investimenti di tipo “Industria 4.0”, dopo il fallimento operativo di “Transizione 5.0”, rappresenta un passo nella giusta direzione.
L’aspetto critico, tuttavia, è la dimensione. In un Paese con una crescita potenziale inferiore all’1% e con forti divari territoriali e sociali, una manovra di 0,8 punti di PIL difficilmente può incidere sulla dinamica economica. Le misure positive – taglio dell’IRPEF, incentivi al lavoro e sostegno alle famiglie – risultano di importo troppo ridotto per generare effetti macroeconomici significativi.
La scelta di non intervenire con una vera revisione della spesa, rinviando ancora una volta il tema dell’efficienza della pubblica amministrazione, delle partecipate e dei sussidi inefficienti, evidenzia la mancanza di coraggio politico. La “prudenza” finanziaria si traduce in immobilismo, e l’Italia continua a non dotarsi di una strategia di medio periodo per la produttività, l’innovazione e il lavoro.
Emblematico è anche il fatto che, pur con un quadro congiunturale moderatamente favorevole, la pressione fiscale non scenda e il prelievo sul sistema finanziario venga aumentato. Tassare un comparto già sottoposto a forte regolamentazione prudenziale può generare effetti regressivi, riducendo la capacità del sistema bancario di sostenere credito e investimenti.
Tra le misure più discutibili figura la quinta “rottamazione” delle cartelle esattoriali. Si tratta di un provvedimento non esplicitato nel DPB ma ormai certo. L’argomento secondo cui i beneficiari sarebbero per lo più soggetti in difficoltà economiche non regge di fronte all’evidenza: il continuo accumularsi di cartelle e la regolarità dei condoni negli ultimi vent’anni hanno creato un pericoloso incentivo all’evasione. La prospettiva di una nuova sanatoria alimenta l’idea che non pagare convenga, in spregio ai contribuenti onesti e ai lavoratori dipendenti che non hanno possibilità di eludere il fisco.
L’impatto etico e reputazionale di tali misure è negativo: indebolisce la cultura della legalità fiscale e compromette la credibilità delle istituzioni nel promuovere comportamenti virtuosi. Una politica economica che ambisca alla stabilità e alla crescita non può poggiare su condoni ciclici, ma su un’amministrazione efficiente e un sistema sanzionatorio coerente.
Un altro elemento problematico è il blocco dell’adeguamento automatico dell’età pensionabile all’aspettativa di vita. Se la misura appare giustificabile per le categorie usuranti, l’applicazione generalizzata, con un costo stimato di circa 2 miliardi nel 2027, rischia di aggravare la dinamica della spesa previdenziale in un quadro già fortemente squilibrato tra pensioni e investimenti produttivi.
Nel complesso, la manovra 2026-2028 mantiene un profilo di prudenza e rispetto dei vincoli europei, ma senza imprimere alcuna svolta strutturale. Il ricorso sistematico a rinvii (come nel caso del PNRR) e a coperture non strutturali riduce la capacità della politica di bilancio di orientare la crescita e redistribuire in modo efficiente le risorse.
Il Governo può rivendicare di aver riportato i conti pubblici entro parametri di sicurezza, ma non può vantare un progetto di riforma economica credibile. La “manovra della prudenza” evita gli errori del passato, ma si limita a gestire l’esistente. Senza una revisione seria della spesa, una riduzione del carico fiscale strutturale e una strategia per la produttività e la coesione territoriale, l’Italia rischia di rimanere in una condizione di stabilità apparente e stagnazione di lungo periodo.
Il rispetto dei vincoli di bilancio è una condizione necessaria, ma non sufficiente per lo sviluppo. La politica economica deve tornare a interrogarsi non solo su “quanto spendere”, ma su “come” e “perché” spendere. In assenza di questa riflessione, la prudenza contabile rischia di trasformarsi in inerzia strategica.




