La storia di Antonella Palmisano è quella di un’atleta che, dopo l’oro olimpico e le difficoltà fisiche, ha saputo reinventarsi trovando nuove motivazioni anche attraverso l’amicizia con Maria Pérez. La 35 km, la disciplina della pazienza, i crampi superati con lucidità raccontano non solo una carriera di successi, ma anche un carattere capace di trasformare ogni ostacolo in crescita. Il suo messaggio è chiaro: la marcia merita più spazio e rispetto, perché dietro ogni medaglia ci sono la stessa professionalità, la stessa fatica e la stessa passione di tutti gli altri sport.
Partiamo subito dall’argomento di cui si parla in questi giorni: la marcia soffre spesso di scarsa visibilità. Secondo te si può cambiare la situazione?
«Certo! Ma servono azioni concrete, ad esempio si potrebbe programmare la marcia negli stessi orari di altre specialità, come il peso o il salto in lungo. In questo modo il pubblico avrebbe l’occasione di scoprirla e seguirla all’interno dello spettacolo dell’atletica. Oppure inserire la marcia nelle manifestazioni più importanti: anche se non è presente nel circuito Diamond League, il Golden Gala di Roma potrebbe prevedere una gara dimostrativa di 3 km per far appassionare il grande pubblico».
E pensi che questo basterebbe?
«Sarebbe già un inizio. Sono piccoli accorgimenti che non inciderebbero molto sull’organizzazione, ma darebbero più visibilità alla marcia. Non è solo una questione di audience: se non promuovi uno sport, è normale che non avrà pubblico. È soprattutto con questi piccoli cambiamenti la federazione lancerebbe un messaggio importante anche simbolico, dimostrando di tenere in considerazione anche la nostra disciplina oltre le altre».
Hai sentito sostegno da parte degli altri atleti e atlete in questa battaglia?
«Sì, e tanto. Mi hanno appoggiata molto. Mi è arrivato sostegno anche da altre discipline. Mi ha fatto piacere ricevere il messaggio di una campionessa del sollevamento pesi che mi diceva di capire bene la situazione. Questo mi ha convinta ancora di più a continuare, mi ha fatto capire che il problema non è solo della marcia: anche altri sport chiedono più rispetto e riconoscimento. Siamo tutti professionisti».
Quanto è dura la tua routine quotidiana da marciatrice di livello mondiale?
«Per me la parola chiave è disciplina. È quello che mi ha sempre aiutata a non vivere gli allenamenti come una fatica ripetitiva. La giornata è molto sistematica: allenamenti, recupero, fisioterapia, chilometri su chilometri. Però la differenza la fa l’ambiente. Dopo l’operazione del 2022 ho passato momenti difficili, mi sentivo sola. Con il cambio di allenatore e di team ho trovato nuova energia positiva. Negli ultimi due anni, pur allenandomi tanto, ho trovato più equilibrio e serenità. Se ti alleni in un clima negativo, invece, diventa tutto molto più pesante».
La 35 km non era la tua distanza preferita eppure è arrivata una medaglia mondiale. Come è nata questa scelta?
«La 35 km l’ho sempre vista come una distanza troppo lunga e con un approccio mentale molto diverso rispetto alla 20 km. All’inizio avevo quasi paura di affrontarla. Poi Lorenzo mi ha proposto di provarci e di fidarmi. È nata così, come una sfida. Ho visto che la resistenza c’era: con gli anni la velocità cala, ma la resistenza resta. Quella medaglia non era cercata come altre, ma è arrivata grazie a un percorso diverso e mi ha dato ancora più fiducia su che tipo di atleta sono e che posso ancora diventare».
Durante la gara hai avuto dei crampi al 23° km. Come li hai gestiti?
«Ogni volta che passavo davanti al tabellone pensavo di fermarmi al giro successivo. Però non volevo rivivere la delusione di Parigi, dove mi sono dovuta ritirare senza colpa. I crampi mi facevano saltare, ma oltre quello non stavo male a livello fisico, ero lucida. Lorenzo, ogni giro, mi dava i distacchi dalle avversarie, e lì ho capito che avevo ancora margine per difendere il podio. Quello mi ha dato la forza di andare avanti. Tagliare il traguardo è stata per me una doppia vittoria».
Hai detto che la pazienza è una dote fondamentale. Perché nella marcia è così importante?
«La marcia è soprattutto una disciplina di pazienza: bisogna avere propensione per i chilometri, per lo stare soli, per il sacrificio. Però se ti viene naturale, se esce facile e ti fa battere il cuore, allora hai trovato lo sport giusto. È anche uno sport tecnico: gli errori nella tecnica possono costarti la squalifica, ma quando il corpo assimila il gesto diventa naturale. Io dico sempre che è più difficile studiarla che farla. E poi ci sono i lunghi allenamenti e i recuperi dagli infortuni: nulla arriva subito. La pazienza si allena anche con il tempo, la fatica e le difficoltà».
E quindi cosa ti spinge a continuare questo sport?
«Lo sport regala delle emozioni uniche è gioia pura. Ci sono momenti che ti fanno capire perché non devi mollare. Tagliare il traguardo, vedere i risultati del proprio impegno. Lo sport non è solo fatica, è scoperta di sé, è gratificazione e soprattutto è condividere ciò che ami con le altre atlete. Si creano sul campo e in gara dei legami davvero profondi ed unici».
Al traguardo infatti c’era anche Maria Pérez ad aspettarti e il vostro gesto ha avuto eco in tutto il mondo. Com’è stato per te condividere una vittoria con un’avversaria?
«L’abbraccio con Maria Pérez è stato un gesto semplice, ma pieno di significato. Condividere la gioia di una vittoria con lei, anche se in gara eravamo avversarie, va oltre la competizione. È un’amicizia costruita negli anni, che mi ha aiutata anche mentalmente, soprattutto quando ho cambiato allenatore. Momenti come quello ti ricordano che il valore dello sport è sostenersi, celebrare insieme i successi. Sapere che lei era lì, pronta a gioire con me, è stato un altro dei motivi che mi hanno aiutato a portare a termine la gara».
Perché proprio la marcia? Cosa ti ha fatto innamorare di questa disciplina?
«Vengo da un piccolo paese della Puglia, Mottola. Non avevamo strutture, non c’erano per esempio gli ostacoli da provare, le piste o allenatori specializzati. Ho incontrato un tecnico appassionato di marcia che mi ha proposto di provarla. Dopo sei mesi ho vinto il mio primo titolo italiano. È stata come una chiamata. Per me è sempre stato naturale: non soffrivo la fatica e mi veniva spontaneo».
Quali sono i tuoi prossimi obiettivi?
«Adesso penso anno per anno. Dopo l’operazione ho imparato che è inutile fare programmi troppo lunghi, perché può cambiare tutto da un momento all’altro. Mi piacerebbe arrivare a Los Angeles, ma senza mettermi pressioni: affronto ogni stagione come una nuova sfida, passo dopo passo. L’anno prossimo ci saranno gli Europei e lì voglio esserci, e tornare alla 21km. In futuro non escludo la 42 km, ma serviranno ancora più lavoro e fiducia con Lorenzo per affrontarla».
Ti vedi allenatrice in futuro?
«C’è stato un periodo in cui volevo diventare allenatrice. Dopo Tokyo ci pensavo seriamente. Poi ho capito che vorrei fare qualcosa di più per la marcia. Troppe volte vinciamo medaglie e non se ne parla. Troppo spesso si ottengono grandi risultati senza ricevere il giusto riconoscimento. È frustrante vincere una medaglia mondiale e restare nell’anonimato. Non voglio che i ragazzi e le ragazze che verranno dopo di me provino la stessa delusione. Non so se sarò allenatrice, ma vorrei restare un punto di riferimento per questa disciplina. Il mio obiettivo è che questo sport non venga dimenticato e che chi verrà dopo di me possa sentirsi orgoglioso di praticarlo».
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