di Gabriele Cicerchia
A un anno dall’annuncio dell’ambizioso accordo tra Italia e Albania che ha dato il via al Protocollo per la gestione dei migranti, i numeri restituiscono un bilancio impietoso.
Dei 36.000 migranti previsti nei centri albanesi, ne sono transitati soltanto 157.
A fronte di un investimento stimato di 130 milioni di euro annui – secondo le stesse cifre fornite dal governo – il costo per ogni singolo migrante ha sfiorato il milione.
Una cifra che fa discutere, specie se confrontata con le priorità interne: sanità, istruzione, lavoro e non ultima la sicurezza. È un paradosso che alimenta le polemiche in Parlamento e spinge l’opposizione a definire l’operazione “una sceneggiata” costruita per fini di propaganda.
Nonostante l’assenza di trasparenza e i continui rattoppi normativi, il governo insiste sulla narrazione del “deterrente”.
Ma i dati pubblicati dal Ministero dell’Interno smentiscono l’efficacia del piano: gli sbarchi in Italia, al 14 maggio 2025, risultano aumentati rispetto all’anno precedente.
E anche il tanto sbandierato successo dei rimpatri dall’Albania si riduce a un numero simbolico: 10 persone – il 25% dei migranti inviati – che, ironia della sorte, erano già in Italia e sarebbero potuti essere rimpatriati direttamente senza passaggi intermedi e senza il ricorso a navi militari. Un’operazione, dunque, che sembra non avere più neppure il consenso di chi l’ha ideata, ma che nessuno nel governo ha il coraggio di chiudere per non incrinare la narrazione in corso da 12 mesi.
Una mossa costosa, inefficace e opaca la definiscono dall’opposizione.
La mancanza di chiarezza sull’intera operazione ha alimentato le accuse di opacità. Le richieste di accesso agli atti, le ispezioni parlamentari, le missioni dei gruppi di opposizione in Albania – da PD, AVS e Movimento 5 Stelle – sono diventate gli unici strumenti per ottenere informazioni su quanto realmente stia accadendo oltre l’Adriatico.
Il governo, infatti, ha sistematicamente evitato di fornire dati precisi sulle nazionalità delle persone trasferite o sui criteri di selezione adottati.
Tutto ciò alimenta il sospetto che non solo l’operazione sia fallimentare sul piano pratico, ma anche che si stia tentando di nasconderne la reale portata dietro un velo di silenzio istituzionale.
La trasformazione dei centri in Albania da strutture per la “procedura accelerata di frontiera” a veri e propri CPR (Centri di Permanenza per il Rimpatrio) è stata l’ennesima giravolta, imposta dal fallimento del modello iniziale.
Ma neppure questo passaggio ha prodotto risultati concreti: al contrario, ha evidenziato la fragilità di un impianto normativo improvvisato, tanto che si è reso necessario l’ennesimo decreto correttivo su cui – prima alla Camera, poi al Senato – è stata posto l’ennesimo voto di fiducia.
A blindare il provvedimento è stato il Ministro per i Rapporti con il Parlamento, Luca Ciriani.
Il decreto Albania – che dovrà essere presto convertito in legge – introduce norme urgenti contro l’immigrazione irregolare dando esecuzione al protocollo Italia-Albania in materia di collaborazione migratoria e di fatto.
Trasforma l’hotspot albanese di Gjader in un CPR verso cui destinare i migranti irregolari soccorsi in mare e quelli trasferiti dai CPR in Italia in vista del rimpatrio.
Secondo il sottosegretario all’interno Nicola Molteni (Lega), “il decreto è un modello virtuoso e preso come riferimento da tanti paesi europei”.
Tutto ciò avviene mentre i parlamentari della maggioranza si affannano a rincorrere gli errori del Governo con emendamenti tampone.
La sensazione, sempre più diffusa, è che l’intero protocollo risponda non a logiche di efficienza o umanità, ma unicamente a esigenze di narrazione politica.
“Funzioneranno”, tuonava la Premier Meloni dal palco di Atreju lo scorso 16 dicembre 2024, “dovessi passarci ogni notte da qui alla fine del Governo italiano”.
Il caso dei centri in Albania si impone dunque come simbolo di una governance che privilegia l’effetto annuncio alla sostanza, la propaganda alla pianificazione. Il fallimento numerico – 157 migranti contro i 36.000 previsti – e il fallimento strategico – un milione di euro per ciascun trasferimento – fotografano una gestione emergenziale priva di visione. Nel frattempo, mentre le risorse pubbliche vengono dissipate in operazioni inefficaci, l’Italia continua a non dotarsi di una politica migratoria strutturata, fondata su accoglienza diffusa, cooperazione internazionale reale e integrazione.
E se anche all’interno della maggioranza si fatica a difendere l’accordo con l’Albania, ciò che resta è la rigidità di una linea che, pur sapendo di aver fallito, non sa e non può fare marcia indietro.
Perché il prezzo politico di ammettere l’errore sarebbe ormai troppo alto.
E intanto, chi fugge da guerre, persecuzioni o miseria resta sospeso in un limbo giuridico e umano, vittima di un sistema che predica fermezza ma pratica l’inadeguatezza.